Coronavirus, sanità al collasso: le cause di una crisi annunciata

Troppi tagli per ridurre la spesa: così la politica ha compromesso la sanità che oggi è sotto assedio. L'esperta: «Si è scelto di sacrificare la capacità di affrontare eventi straordinari»
In vent'anni eliminati un terzo dei posti letto e ridotti gli investimenti. Mancano all’appello ottomila medici e tredicimila infermieri. Gli ospedali lombardi: «Siamo al limite. Ogni giorno sempre più contagiati tra il personale». In molti non tornano alle proprie famiglie per paura di portare il virus

«Una volta messe le protezioni, non possiamo bere, né mangiare, né andare in bagno per sei ore. Siamo stremati». C’è anche chi dice “esausti”, oppure “al limite”, ma le storie sono sempre le stesse ed arrivano tutte dagli ospedali lombardi: sembrano racconti di trincea. Quella che si combatte contro il Covid è una gara di resistenza, una guerra di logoramento che ha già provocato migliaia di morti. Il sistema sanitario in molte regioni del Nord è al limite del collasso. Posti letto, personale, macchinari: c’è carenza di tutto. Molti pazienti muoiono nelle accettazioni o prima di arrivare in ospedale, tantissime persone con sintomi vengono rimandate indietro senza far loro il tampone.

Lavorare in prima linea – Ogni giorno aumenta il numero di medici, infermieri e Oss contagiati. Secondo l’Istituto superiore di sanità (Iss), al 22 marzo sono quasi 4000 in tutta Italia. Tanti di quelli che lavorano in ospedale hanno scelto di non tornare più alle proprie famiglie: hanno paura di portare il virus a casa. «Non possiamo mai abbassare la guardia», racconta un medico dell’ospedale San Matteo di Pavia che preferisce restare anonimo, dopo un turno in pronto soccorso: «Siamo preparati al fatto che qualcuno arrivi senza sintomi ma sia contagiato. Per fortuna vivo da sola».

Perché siamo a questo punto? – Questa pandemia ci ha messo davanti a un fatto: la sanità ha subito troppi tagli. Le politiche degli ultimi due decenni hanno ridotto di un terzo i posti letto negli ospedali ed ora mancano all’appello ottomila medici e tredicimila infermieri. In 25 anni, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), i letti per il trattamento di pazienti gravi sono passati da 575 ogni centomila abitanti a 275: quasi la metà. Messi meglio di noi la maggior parte dei Paesi europei, compresi Germania, Francia, Portogallo e Grecia (tutti con un sistema sanitario pubblico), peggio invece Spagna e Regno Unito. Dati, questi, che però contrastano con quelli del Ministero della Salute, secondo cui i posti in terapia intensiva sono aumentati del 13% in dieci anni.

Le ragioni del divario e le misure d’urgenza – I dati dell’Oms e dell’Iss sui posti in terapia intensiva sono differenti per due ragioni. Innanzitutto, i due enti usano una diversa definizione di “cure intensive” (quella dell’Oms è più estensiva). La cifra dell’Iss, inoltre, non tiene conto della riduzione – non ancora quantificata – imposta nel 2015 a seguito del cambiamento degli standard sanitari, che ha portato a tenere normalmente occupati otto letti su dieci nelle terapie intensive. In queste settimane si stanno attrezzando reparti d’emergenza in tutta Italia: prima potevamo contare su circa 8300 posti letto dove portare i pazienti contagiati – tra terapia intensiva e malattie infettive – ora ne abbiamo circa 1500 in più e nei prossimi giorni ne arriveranno almeno mille altri (i numeri sono stimati e in continua evoluzione).

Soddisfare bisogni o numeri – «Le criticità che viviamo sono il frutto di una scelta politica precisa e consapevole», afferma Alessandra Pioggia, esperta di organizzazione ospedaliera ed ex presidente dell’Organismo indipendente di valutazione sanitaria della Regione Umbria. «Si è scelto di sacrificare la capacità di assicurarci contro eventi straordinari per privilegiare obiettivi di risparmio di breve termine. Da anni – sostiene Pioggia – la missione imposta ai direttori ospedalieri si può riassumere così: ridurre posti letto, ridurre giornate di lavoro, ridurre spese farmaceutiche».

Indebolire il fronte e poi cercare rinforzi – Dal 2015, per ragioni di efficienza economica, i reparti di terapia intensiva sono regolati in modo da avere, in condizioni normali, almeno l’80 per cento dei letti occupati. Questo significa che per fronteggiare eventi straordinari come terremoti o epidemie, restano a disposizione solo il 10-20 per cento dei posti. «Aver scelto un margine così ridotto – afferma Pioggia – significa accettare il rischio di dover arrivare a scegliere chi curare e chi no. Vuol dire mettere i numeri davanti ai bisogni». Il risultato è che ovunque si cercano rinforzi: quasi tutti i reparti ospedalieri mandano medici in pronto soccorso o in terapia intensiva, diecimila laureati in medicina sono stati abilitati alla professione. Il 20 marzo il Governo ha pubblicato un bando per trecento medici volontari da inviare in Lombardia: una chiamata alle armi. Hanno risposto in settemila.

Autore

Arnaldo Liguori

Nato a Genova nel 1992. Laurea triennale in Scienze Politiche. Laurea magistrale in Mass Media e Politica all'Università di Bologna, con una tesi di ricerca sulla disinformazione online in Italia. Ha svolto un periodo Erasmus a Vilnius, in Lituania. Oggi è giornalista praticante presso la Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.