Bianco, rosso e no alcol. Lo scorso 23 dicembre il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, ha firmato il decreto che dà il via libera in Italia alla produzione di vini “NoLo” (no e low alcol). Da quest’anno, quindi, le imprese italiane non dovranno più appoggiarsi all’estero per realizzare bottiglie dealcolate. Si infrange così un enorme tabù nel Paese primo al mondo nel settore enologico e con una millenaria tradizione vitivinicola.
Il decreto – Il provvedimento, almeno per adesso, non riguarderà i Dop e gli Igp, che costituiscono l’eccellenza e l’ossatura del vino Made in Italy. La dealcolazione potrà essere effettuata negli stessi stabilimenti delle cantine, ma in locali separati. I prodotti con una percentuale etilica non superiore allo 0,5% saranno classificati come totalmente dealcolati, mentre quelli con un tasso compreso tra 0,5% e 8,5% come parzialmente dealcolati.

Gusto e odore – Le tecnologie a disposizione, seppur all’avanguardia, non sono ancora in grado di creare vini all’altezza del loro nome. «Senza alcol» commenta l’enologo Roberto Di Filippo «si tratta di una bevanda diversa. Si sente che manca qualcosa. Un po’ come il caffè decaffeinato o i latticini senza lattosio. L’etanolo dà dolcezza, struttura, complessità e aromi. Tutti elementi che poi si cerca di restituire con il reinserimento degli zuccheri estratti durante il processo e che arrotondano il vino, altrimenti troppo magro e asciutto». Proprio per questo motivo, di solito si utilizzano uve particolarmente aromatiche in modo tale da partire con una buona base di sapori e odori.
Nessun rischio per la salute – Da un punto di vista salutistico, l’assenza di alcol, ovviamente, elimina tutti i possibili danni epatici. «I totalmente dealcolati» chiarisce il nutrizionista dott. Giuliano Parpaglioni «non comportano particolari rischi per la salute. Se gli zuccheri non sono in quantità eccessiva, queste bevande possono essere considerate salutari come un succo di frutta o una spremuta di arancia amara».
Come funziona la dealcolazione – Il processo fisico, che da un vino fatto e finito permette di togliere del tutto o in parte la componente alcolica, è realizzabile in tre modi diversi. Il primo è la distillazione a temperature controllate, che però elimina anche gli aromi. Poi ci sono le tecniche di membrana come l’osmosi inversa che, attraverso un’elevata pressione, separano l’etanolo dal resto. Infine, con l’evaporazione sottovuoto si abbassa la temperatura di ebollizione alcolica a 20° in modo tale da non rimuovere l’acqua. Queste metodologie, adottabili singolarmente, di recente sono state combinate in un macchinario a circuito chiuso che consente soprattutto di reintegrare i composti aromatici prelevati durante il processo. «Le apparecchiature per la dealcolazione, essendo molto sofisticate e costose» spiega Di Filippo «per adesso possono permettersele solo le grandi aziende. Le piccole cantine, però, potrebbero appoggiarsi a terzi, così da poter produrre anche loro, se vogliono, delle bottiglie NoLo».
Un nuovo mercato – La possibilità di realizzare vini dealcolati in Italia senza più doversi affidare a impianti esteri, offre grandi opportunità di mercato e consente di intercettare nuovi clienti: atleti, automobilisti, donne in gravidanza, persone astemie per motivi di salute o di religione. Un segmento di consumatori diverso, che non sostituisce il vino classico con i NoLo, ma che va ad aggiungersi alla platea di acquirenti, evitando la cannibalizzazione delle vendite. Il settore enologico italiano si inserisce così nel business degli analcolici, un giro d’affari da oltre 13 miliardi di dollari già nel 2023 e che, secondo gli ultimi dati dell’istituto di ricerca inglese Iwsr, crescerà di oltre 4 miliardi entro il 2028.