Nella piccola cornetteria di via Pinturicchio, a Perugia, in questi giorni le ore sono più lunghe. Mehmet Uter, il gestore, scorre di continuo il cellulare in cerca di notizie sulla crisi siriana. Di origini curde, è nato nel 1964 a Sirnak, città della Turchia che confina con Siria e Iraq. Padre di quattro figli, a quarant’anni scappò in Italia per le troppe vessazioni subite. Qui ha trovato la sicurezza, ma non la pace. «Possibile che a questo mondo non ci sia un pezzo di terra per i curdi, sessanta milioni di persone?», si domanda amareggiato.
Una stoffa rossa – La famiglia Uter ha una storia difficile. La sua villa viene distrutta nel 1994 insieme ad altre trentaseimila case curde. Nel 1997 il padre, un militare, viene assassinato in circostanze misteriose. Lo stesso Mehmet finisce in carcere dieci volte («un giorno perché ascoltavo musica curda») finché, dopo aver sistemato i figli ad Adana, a Sud della Turchia, decide di lasciare il Paese per l’Italia. «Noi curdi siamo la preda di una guerra continua, come la stoffa rossa per i tori spagnoli. Resistere alle angherie dei turchi era impossibile».
L’esilio – Dopo qualche mese passato a Lecce, Mehmet si sposta a Perugia, nel centro migranti di Via del Favarone. Qui inizia la sua nuova vita: tanti lavori (muratore, cameriere, barista) e un matrimonio felice con una donna italiana: «L’Italia è per me una famiglia e una seconda patria». Tre anni fa la decisione di prendere in gestione una cornetteria, che però arranca: «Lavoro tutta la notte ma guadagno pochi euro, è sempre più difficile». La moglie è scomparsa a settembre per una grave malattia, e ora la lotta con la precarietà si aggiunge a quella con la solitudine.
La terra e il popolo – Quando parla di se stesso Mehmet è un uomo mite, che sorride anche dei problemi. Ma quando valuta l’attualità si rattrista.«Il mondo è stato sempre ingiusto con i curdi – riflette -. Siamo stati i soli a combattere davvero l’Isis, e ora che quella battaglia è vinta e non serviamo più, ci voltano le spalle». Sull’operazione di Erdogan è severo: «Se i turchi sono entrati in Siria è per debellarci, per prendere tutto ciò che abbiamo». Mentre parla ci mostra alle pareti le foto di Abdullah Öcalan, lo storico leader curdo condannato all’ergastolo. Come lui sono in carcere quattordici parlamentari della stessa etnia. «Ad Ankara il giusto processo – dice – non esiste più, basta una minima opposizione per essere tacciati di terrorismo». «Tornare in Turchia? No – risponde infine Mehmet – non potrei. Il mio popolo lo sostengo da qui. Prego, osservo, spero. E come andrà a finire, non lo so».